mercoledì 6 giugno 2012

" Ad Anna Tamanini la sua Anedra in umido; Trento 15/dicembre/ 1891"

Una grande libreria tibetana, piena di libri di cucina è un po’ come un grande baule di noce o d’abete consegnato a mo di dote nuziale alle giovani spose di un tempo.
Certo non sono testi antichi, ma ironia della sorte, nascondono a volte nel loro interno, vecchi manoscritti.
E allora mi sento come una sposa appena diventata, che assieme al corredo, alla veste nuziale, alla candela benedetta, scopre nella vecchia cassa, ricette di cucina di secoli di vita.
Questa è la storia che vi vado a raccontare.
Tutto ha inizio venerdì pomeriggio, quando usciamo dal nostro macellaio di fiducia, con una bella anatra “ sottobraccio “.
“ Come la facciamo,come non la facciamo ?..........”.
Il vecchio baule
 Tappa d’obbligo la grande libreria di cui sopra.
 Apro, sfoglio, chiudo e sfoglio testi di continuo fino a quando non mi imbatto in uno dal titolo
La casa dell'anitra

L'anitra trentina
  “ Il Bauer, cucina,     tradizioni, ricette della cucina trentina“. Adesso che ricordo è un libro che ho comprato diversi anni fa, meta i mercatini natalizi.
Di primo acchito dà l’idea di una semplice raccolta di ricette, ma invece non ha niente a che spartire con tutto ciò.
La mia curiosità si fa più viva quando scopro una sezione dedicata a 12 menù.
Ma non sono menù tanto per dire, sono interi pasti ricavati da un antico ricettario del 1800 di Anna Tamanini.
Penso che sicuramente si deve trattare di una famosa cuoca dell’epoca, per essere riportata così ampiamente nel Bauer, soprannominato “ l’Artusi della cucina trentina “.
Ma……. Rimango di stucco,  quando dopo un in giorno intero di ricerca su internet ottengo risultati 0.
Niente da fare, questa Anna Tamanini sembra essere stata rispolverata dai coniugi Bauer per poi scomparire di nuovo.
Dovete sapere che Carlo Alberto e Anna Lucia Bauer avevano iniziato nel 1966 un grande lavoro di ricerca sulle ricette della cucina trentina. Le loro scoperte apparivano ogni settimana, sul quotidiano “ L’Adige di Trento “.
Il Bauer
Dal quotidiano al libro il passo fu breve. Un passo che dura tuttora, visto che, nonostante la scomparsa degli autori, a oltre 40 anni dalla sua nascita, è giunto alla 5 edizione.
E’ solo nell’edizione del 1980 però,  che compare il repertorio dei 12 menù estratti dal manoscritto ottocentesco di Anna Tamanini.
Sulle fonti del Bauer viene riportato infatti come “ libro di cucina della gastronoma trentina Anna Tamanini manoscritto e datato 15/ dicembre 1891 “.
Le ricette vengono presentate anche durante delle trasmissioni radiofoniche e Anna raggiunge un successo inaspettato in tutte le vallate del trentino.
Purtroppo non sono riuscita a scoprire  qualcosa di più su questa donna arrivata ai giorni nostri attraverso lo scritto delle sue ricette, narrate con semplicità e amore.
Fortunatamente la stesura delle varie preparazioni non è stata modificata. Sue sono le parole, suo quell’incedere elegante e nello stesso tempo chiaro  di stile di scrittura.
Così non potendo approfondire su questa cuoca misteriosa, cerco di scoprire qualcosa di più sui ricettari in genere.
Vengo a sapere allora che, dal medioevo a buona parte del’ottocento, nessuna donna era ritenuta all’altezza di svolgere i lavori di cucina, dove si preparava cibo di un certo livello.
Le pratiche di cucina, comprese le tecniche di cottura e i trucchi del mestiere, vengono riportate da prima oralmente e poi trascritte nei primi ricettari e passate come prezioso bagaglio, da padre a figlio. Pentole e fornelli, un lavoro esclusivamente da maschi.
Alle donne spettava solo il ruolo di “ sguattera “. Poteva solo sbirciare tra pentole varie e  “rubare con l’occhio”.
Questa era la realtà lavorativa di allora, ma a casa le cose cambiavano. Era la donna infatti, ad occuparsi del cibo per tutta la famiglia. Era lei che pensava al modo migliore per sfamare i suoi cari.
A un certo punto però, le cose cominciano a cambiare. I nobili sono costretti a ridurre il numero dei servi e così molte sguattere vengono convertite in cuoche ( il loro salario era inferiore a quello degli uomini ).
La cipolla empita di aromi
Ecco che le donne passano “ di grado “, diventando ottime chef.
Ingredienti poveri si uniscono a cibi ricercati dando vita a una nuova cucina dai sapori più ricchi e veri.
Ora è la donna che inizia a trascrivere il suo sapere. Ricette che faranno parte non solo del mondo dei signori, ma anche della propria famiglia. Ricette che verranno tramandate di generazione in generazione e spesso passate come dote alla propria figlia che si sposa.Ritrovo in queste mie parole un po’ di Anna Tamanini. Si ! è così che la voglio ricordare, come una cuoca ( magari al servizio di signori ) che nel 15/ dicembre del 1891 decide di scrivere le sue ricette per prepararle alla dote della figlia che si sposa.
L'anedra
Brandelli di storie che purtroppo rimarranno ancorate alla fantasia che cerca di rimpiazzare i tasselli mancanti !
L'anedra rosata
E’ vero, alcuni tasselli non ci sono più, ma che importa se rimangono comunque le parole del suo manoscritto.
Pane trito
Voglio lasciare la ricetta così come è, senza cambiare neanche una virgola.
Anedra in cottura
Basterà copiarla, lasciando a voi il compito di interpretazione.
Grazie
Un interpretazione non tanto per la spiegazione della preparazione e cottura della pietanza, quanto invece per il modo di scrivere, dell’esporre i pensieri.
Chissà forse insieme potremmo scoprire qualcosa di più e riportare alla luce l’identità vera di una donna che ancora ci sta parlando a distanza di secoli.
Il mio manoscritto
Ricordando

Un pensiero per te

Uffa !.............ancora fantasia……………ma chissà.



“ Anedra in umido “

……………………………………………………………………………………………………………………………………………

Metti all’interno nell’anedra [ anitra ] dopo averla ben pulita, una cipolla grossa già empita di aromi, poi cuocila in una casseruola con burro, poco lardo e falle acquistare colore rosso.
Indi prendi pane trito e coll’unto dell’anedra fallo friggere dentro una padella.
Poi mettevi tre bicchieri di vino bianco e buono, poche erbe aromatiche e dopo pochi momenti di bollitura getta ogni cosa nella casseruola dell’anedra.
Ma prima getta via tutto l’unto e mettevi brodo se il vino bianco non è bastante, per cuocerla bene avanti di portarla in tavola con un poco di umido dentro.
                                                                                                              Anna Tamanini

domenica 20 maggio 2012

La costiera amalfitana, un grande giardino di limoni


paesi arroccati sulle rocce
Sono bastate appena 48 ore trascorse in costiera amalfitana per accorgersi che il paradiso ancora esiste.
In un attimo ti ritrovi catapultato in un’altra dimensione dove il profumo di limone si mescola al verde delle  terrazze e al blu cristallino del mare. Immersi in questo cocktail mediterraneo il tempo assume un altro spazio, quasi infinito dove le giornate sembrano non voler mai finire.
Una terra dalla storia antichissima, fatta di repubbliche marinare, di giardini babilonesi e di influenze arabe. Il protagonista indiscusso di tutto ciò è un limone o meglio il limone sfusato amalfitano. Sembra strano, quasi ridicolo, come un semplice agrume possa aver cambiato i connotati di un piccolo lembo di mondo. Eppure è così.
I limoni giungevano nella costiera dai porti d’oltremare, ma quando nel 200 i traffici marittimi cominciarono a diminuire, il fabbisogno locale non era più sufficiente.
Bisognava inventarsi qualcosa e provare a coltivare questo agrume a kilometro 0, ma come fare? Ripide vallate, scoscesi terreni non erano sicuramente i luoghi più adatti  a tutto questo.
giardini pensili
Furono gli arabi a venire in soccorso alla popolazione amalfitana e come? Insegnando loro le tecniche di cotivazione e il vero valore di questo frutto.
giardini di limoni
Non più solo pianta ornamentale, ma anche risorsa alimentare e medica.
terrazze infinite
Furono gli arabi a portare in questa terra le conoscenze riguardanti i sistemi di irrigazione e le costruzioni dei terrazzamenti utilizzate da quel momento in poi dagli abitanti locali. E così poco per volta tutta la zona si è venuta a trasformare in un grande giardino babilonese.
Un grande giardino che alla fine dell’800 divenne grandissimo, tanto che la costa d’Amalfi venne denominata la costa dei limoni. Furono distrutti vigneti, oliveti e carrubeti.
Furono dissodati boschi per fare più spazio alla coltivazione dei limoni.
uomo e natura
Fu questo il momento in cui l’uomo con le mine, con il piccone e anche con le sole mani nude seppe creare una meraviglia di ambiente.
Mine per frantumare la roccia. Terra trasportata a braccia da colline sovrastanti, per colmare i ripiani. L’uomo la natura e nient’altro.
Si costruì enormi vasi fatti col terreno e interi muri di pietra di contenimento.
Un ‘opera di grande ingegneria umana.
E’ proprio questa che alla fine ti colpisce ancora oggi più di ogni altra cosa. Più dello spendido mare, dei magnifici paesini diroccati su colline a strapiombo. Più delle cupole maiolicate che ergono con i loro colori richiamanti i terrazzamenti della costa.
Sopra tutto c’è la forza e l’amore dell’uomo per la sua terra.
L’uomo che ha saputo strappare  alla natura il suo aspetto selvaggio, senza mai però annientarla. L’ha saputa addolcire, quasi rimodellare, proprio come avrebbe fatto uno scultore alle prese con del marmo.
Come avrebbe fatto un pittore, colorandola con i gialli più svariati.
Come un artista innamorato della propria arte.
Ed è proprio l’amore che traspare da queste colline, un amore senza fine.
Eppure appena entri in questo mondo, quasi non te ne accorgi della vastità di tutte queste piantagioni. Talmente preso dal cambio del panorama, tra mare verde e cielo.
Poi all’improvviso è come se l’occhio si adattasse meglio all’ambiente circostante e di colpo da ciechi si tornasse alla vista. Adesso ho capito il perché di tutto questo limoncello venduto in ogni millimetro di spazio. Del perché immagini di limoni sovrastano, più di ogni altra cosa, interi paesi. Perché il limone per queste terre hanno rappresentato tutto. Intere famiglia dedite alla sua coltivazione, alla sua vendita.
Il limone come sostentamento per vivere, il limone come vita.
il Duomo di Amalfi
il pozzo dei dedideri
una monetina per ritornare
Oltre alle riflessioni però il viaggio continua e così ormai per consuetidine entriamo in un negozietto di antichità di Amalfi e vedendo che aveva anche libri chiedo di qualcosa che riguardasse la cucina tipica. “ No non ne abbiamo, anzi ne ho solo uno monotematico sul limone “ risponde il proprietario. Mi porge un volume dalla copertina disegnata con una vecchia bilancia carica di limoni. Una rapida occhiata e dico “ lo compro “.
Continuiamo il nostro giro, ma i morsi della fame del “ socio in cucina e giardiniere a tempo perso “ ci fanno ritrovare seduti davanti al duomo con una birra lui e un prosecco io, giusto per aspettare la cena.
Bè la visuale non è niente male, anzi splendida. Il tempo è mite e sembra quasi essersi fermato.
Sfoglio alcune pagine del libro appena comprato, basta un attimo per capire che è meraviglioso, scritto con l’animo.
Il libro si chiama “ il limone della costa d’Amalfi, ricette storia arte “.
Lo scrittore Ezio Falcone non lo conosco e così tiro fuori dalla mia borsa il mio mondo virtuale ( Ipad ) e digito il suo nome.
Che tristezza scoprire che una persona della quale ho appena saputo l’esistenza, non esiste più,stroncato a marzo improvvisamente.
Riprendo il libro in mano ed al tatto già lo sento diverso, più prezioso, più unico.
Le parole acquistano un significato più profondo, quasi come se mi volessero trasmettere una spinta per divulgare la sua voce, il suo pensiero.
Quest’opera infatti è stata ideata da Falcone per cercare di rinfondere negli animi delle persone l’antica passione per la coltivazione del limone. E’ da tempo ormai che l’uomo, quello stesso uomo che prima ha strappato alla terra quest’angolo di paradiso, si è un po’ arreso. Un lavoro troppo grande per un così piccolo guadagno. E così dove l’uomo si lascia andare, anche la natura si abbandona. Le Nazioni Unite hanno invitato a questo proposito  tutti i paesi del mondo a proteggere i terrazzamenti come salvaguardia del paesaggio.
Quest’opera monumentale che nel tempo è stata creata non deve andare persa, non solo per l’aspetto naturalistico , ma soprattutto per l’aspetto culturale .
Come si protegge un monumento attraverso i restauri fatti nel tempo, per mantenere sempre viva una pagina di storia, così si deve fare per quanto riguarda i terrazzamenti amalfitani.
Solo che in questo caso è l’animo dell’uomo che deve andare restaurato. Bisogna riaccendere i sentimenti verso il passato, se si vuole vivere il presente, pensando al futuro.Bisogna ripensare all’instancabilità di migliaia di donne protagoniste delle fasi più delicate di questo duro lavoro, dal trasporto fatto a spalla in ceste chiamate bomboniere, alla selezione e sistemazione nella casse per la spedizione. Bisogna ripensare proprio a quelle donne che ogni mattina prima di raccogliere il limoni si tagliavano le unghie e indossavano guanti di cotone per non “ ferire “ anche solo leggermente la scorza del limone e compromettere così quel magnifico frutto della terra.
Chissà forse era proprio tutto questo che doveva emergere dal libro. Serviva un qualcosa per  “restaurare gli animi”, per infondere ancora nell’uomo la forza di continuare ad andare avanti. Uno stimolo per non abbandonare tutto quello che con fatica e pochi mezzi altri uomini, del passato hanno costruito.
Una piccola voce lanciata nel web, un piccolo sasso lanciato a chi avrà mani per afferrarlo.
la mia bilancia di limoni
A me adesso non rimane che riaprire quel libro meraviglioso, scegliere una tra le splendide ricette riportate e continuare il mio viaggio nella costiera divina tra sapori di terra al profumo di agrumi.

“ Arrosto di vitello con erbe al limone “

Ingredienti:
1 kg. di vitello

Per la marinatura:

1 spicchio di aglio tritato
il succo di due limoni ( ovviamente della costa amalfitana )
la scorza di un limone ( solo la parte gialla ) tagliata a julienne
3 cucchiai di aceto di vino bianco
2 cucchiai di origano ( io ho usato origanum maJorana )
1 cucchiaio di timo ( io ho usato il timo al limone )
olio extra vergine d’oliva
grani di pepe nero pestati
sale q.b.

maionese all'Amalfi
per la maionese:     

1 spicchio d’aglio pestato
1 cucchiaio di origano tritato
olio extra vergine d’oliva
200 gr. di maionese


Procedimento:

Con lo spago da cucina legate la carne e mettetela in una teglia.
In una ciotola preparare la marinata riunendo tutti gli ingredienti elencati in ricetta  e versate la preparazione ottenuta sulla  carne lasciando marinare per circa due ore.
Far cuocere la carne con la marinata per 1 ora e 15 minuti.
In una ciotola versate la maionese ed aggiungere gli ingredienti elencati in ricetta e mescolate con forza.
Lasciate riposare la salsa ottenuta per il tempo di cottura dell’arrosto.
Togliete la carne dal fuoco, raffreddatela a temperatura ambiente, eliminate la spago ed affettate l’arrosto.
Filtrare la salsa al limone ed addensarla con la farina.
Servite la carne con la salsina così ottenuta, accompagnandola con patate arrosto e con la maionese all’origano.


E per finire da questa terra speciale un frammento veramente speciale.
Mentre ce ne stavamo andando via, dalla macchina mi sono accorta di vedere una cosa alquanto insolita.
" fermati fermati che devo fotografare una cosa strana ". Quel gatto se ne stava li tranquillo e beato sdraiato su una grande foglia di una pianta grassa, come se fosse su un soffice divano. Non so perchè ma per un attimo mi è sembrato di essere entrata come Alice nel paese delle meraviglie. Bè a pensarci bene......... la costiera amalfitana è proprio il  paese delle meraviglie!!!!!

lunedì 7 maggio 2012

" Un fazzoletto di terra per San Ciriaco "


UN FAZZOLETTO DI TERRA PER SAN CIRIACO



le fave piccole piccole
la fava un po' più grossa
La memoria di un primo maggio appena trascorso mi fa tornare indietro nel tempo ai primi di novembre quando io e l’aiuto cuoco nonché contadino a tempo perso, decidiamo di piantare della fave. Dovete sapere che il nostro terreno non è dei più adatti alla coltivazione, essendo principalmente composto da tufo, ma fortunatamente la “ tigna “ non ci manca. Diciamo che a forza di zappare e rizappare è stato trasformato ( sicuramente non da me ) un piccolo quadrato di terra “ selvaggia “ in un bel fazzoletto di terra coltivabile. Già nel passato eravamo riusciti nell’intento di “ coltivazione diretta” con i pomodori prima e le papoule poi  (ricordate il post dell’erba X ? ) . 
la fava sotto la neve
Senza saperlo  becchiamo anche il periodo adatto. Secondo “ L’almanacco del vergaro “  ovvero la codificazione del calendario delle pratiche rurali,  il primo di novembre viene considerato un po’ come lo spartiacque del periodo più adatto alla semina, soprattutto per le fave. Infatti un vecchio proverbio dice “ le belle semiente ( il bel seminare ) quindici di innante e quindici dopo i Sante, chi primi può pija n’aspiette i restante “ a conferma di quanto scritto sopra. Ancora oggi comunque viene consigliato di piantare la fave nei giorni 2 novembre o in alternativa il 7 o il 17 o il 27 dello stesso mese rispettando quindi la cabala del numero 7, forse per collegarsi al fatto che sette semi dentro un baccello sono sinonimo di fortuna.
Fin qui dunque tutto bene, periodo azzeccato ma………..
le fave cresciute
Scopriamo in ritardo di un’altra credenza legata alle fave e cioè quella di passare i semi in un caldaio di rame, per preservarli dalle malattie. Scoperta arrivata oramai in ritardo, visto che i nostri legumi sono ormai a dimora, nel calduccio della terra. Bé incrociamo le dita e speriamo fortissimamente che alle nostre fave non succeda niente di male.
Nel frattempo un po’ di storia sulla fava non potrà che far accrescere il desiderio di poter raggiungere un buon risultato finale.
un bel baccello
Così scopro che già dall’antica Grecia la fava è stata oggetto di destini alterni. Odio e amore i sentimenti che hanno accompagnato questi legumi nel tempo.
Sorprendente era l’avversione di Pitagora e dei suoi discepoli. Pensate che il filosofo in fuga dagli scherani di Cilone ( Crotone )  preferì farsi raggiungere e uccidere, piuttosto che attraversare un campo di fave e mettersi in salvo. Al contrario scopriamo invece che durante la Pyanòpsia, una festa rustica, veniva preparata e mangiata una zuppa rituale  con questi vegetali.
campo di fave
In terra ellenica inoltre le fave assumevano un ruolo importante in tutte le cerimonie dedicate  alle anime dei morti, Una di queste chiamata “ chitri “ prevedeva, infatti di  lessarne in gran quantità per offrirle poi a Bacco e Mercurio. Il nome di questa festa sembra che derivi proprio da chittari, nome delle bucce delle fave e chitri, le speciali pentole dove venivano cucinate.
Forse l’utililizzo delle fave nelle celebrazioni dedicate ai defunti sembra derivare dal colore dei suoi fiori, che risultano bianchi ma macchiati di nero, colore molto raro nel mondo vegetale e da sempre simbolo di morte. La cosa più curiosa inoltre è quella di venire a sapere che le macchie del fiore vengono a formare la lettera tau greca, ovvero la prima lettera della parola thanatos, che significa appunto morte.
E anche qui arrivo non in ritardo, ma di più visto che quando scopro tutto ciò dei fiori delle fave nel mio campetto, ne sono rimasti ben pochi.
In tutta questa storia di leggende e superstizioni anche gli antichi romani non sono da meno.
Spargevano il feretro di fave, durante il funerale, mentre gli schiavi  buttavano i baccelli dietro alle loro spalle, come lamento per la morte del loro padrone.
Fortunatamente ci pensa Apicio a ritirare su il morale di questi poveri legumi, tanto da dedicargli, nel suo De res co quinaria, alcune ricette, in cui le consiglia addirittura accompagnate a uova, pepe e miele.
Quello che alla fine risulta importante, al di là di tante storie, è che la fava diventerà uno dei cibi preferiti della povera gente ed è così che la vorrò rappresentare nella mia tavola. Semplice e genuina. Ma di questo ne parlerò tra un pochino.
A questo punto so già cosa state pensando “ ma che c’entra il Ciriaco del titolo, con tutta questa storia delle fave ? “.
Dovete sapere che San Ciriaco è il protettore delle fave ? no !!!!! San Ciriaco è il protettore di Ancona e viene festeggiato il 4 maggio. Dal I maggio ( giorno del suo martirio ) nella mia città si svolge la fiera detta appunto di San Ciriaco o meglio San Ceriago ( in dialetto ). Anche qui avrei tante cose da dirvi, ma credo che mi sono fatta prendere un po’ troppo la mano dalle fave in questione e non vorrei farvi prendere le ferie per poter leggere il mio post. Ci saranno altre occasioni per approfondire l’argomento.
Intanto da quel lontano novembre ne è passato di tempo. Ma quello che devo dire è che niente, neanche la neve ( o meglio nevone ) ha impedito la buona crescita delle piantine.
si avvicina la raccolta
Certo che arrivare al I maggio e  riuscire a mangiare le proprie fave, scusate tanto, ma non è roba da poco. Vuoi mettere andarle a comprare al supermercato, o nelle migliori delle ipotesi dall’erbivendolo di fiducia e……. invece assaporare il frutto del proprio sudore con il profumo della tua terra ? Amici non c’è paragone.
ci siamo!!!!!
Certo che mai pubblicità poteva essere più azzeccata per descrivere questo mio pensiero “ certe cose non si comprano con la VisaCard “.  Verità sacrosanta, oggi che con la carta di credito non ci puoi comprare più neanche le cose materiali, con i tempi che corrono, pensa se si potessero comprare i sogni. Però, un semplice gesto, tirare fuori la card, esprimere un desiderio e vai……… Neanche Steve Jobs con la sua testa supertecnologica e l’aiuto del suo nuovo datore di lavoro ci possono riuscire. E poi i sogni devono rimanere sogni se no non ci sarebbe più la speranza e un mondo senza più speranza sarebbe bruttissimo.
il cesto colmo colmo di fave
primo piano del cesto di fave
baccello con 7 fave ( simbolo di fortuna )
che belle eh?
Ridendo e scherzando ecco arrivata la mattina del primo maggio. Trepidanti ( come bambini la mattina di natale sotto l’albero ) ci dirigiamo, ancora in pigiama verso il nostro campetto, munito di ampio cesto al seguito. “ Guarda che è troppo grande, non crederai di riempirlo tutto ? “ mi dice in modo canzonatorio il giardiniere a tempo perso. Offesa nell’amor proprio non rispondo, mi limito ad inviargli uno sguardo poco carino. E così fava sopra fava il cesto si riempie, anzi diventa colmo, al punto che per difesa, sempre il giardiniere di prima aggiunge “ oh ! non avrei mai creduto che fossero così tante “ ancora una volta non merita risposta ma solo una linguaccia. Così soddisfatti del prezioso bottino rientriamo in casa e in men che non si dica tutta la sala è invasa da, un dolcissimo profumo di fave. Così forte e dolce che mio padre dice “ oggi mi avete fatto ritornare indietro a 60 anni fa, quando il I maggio si andava a raccogliere le fave per poi  fare tutti insieme la scampagnata a Santa Lucia” ( frazione di Monte San Vito ). Queste sono soddisfazioni, il sapere di evocare sapori di un tempo.
Un tempo quando le cose erano semplici e ci si divertiva con poco, perché tutto faceva festa.
E’ proprio così. Devo pensare assolutamente a qualcosa di estremamente semplice per queste fave. Mi viene in aiuto un vecchio libro di cucina marchigiana, scritto negli anni 70 da un insegnante Nicla Mazzara Morresi. E’ un testo introvabile, una piccola chicca da tenere sotto vetro. Purtroppo non è mio, mi è stato dato in prestito da una persona eccezionale, grande cuoco, grande conoscitore di tante cose e soprattutto nostro amico. La scrittrice appassionata della sua terra, le Marche, pensa bene di raccogliere tutte le, usanze e ricette tramandate fino ad allora oralmente, della realtà contadina e per fare ciò gira in lungo e in largo la campagna marchigiana.  Il suo saggio intento è preservare tutto questo dall’oblio , visto che già in quegli anni la civiltà contadina stava quasi scomparendo del tutto. Grazie a lei se molte di queste cose si sono salvate. Prometto di trascrivere i passi più importanti di questo testo, prima di riconsegnarlo nelle mani del suo legittimo proprietario, promesso !!!!!!!!!
Ora dopo tanta teoria passiamo alla meritata pratica. Innanzitutto provvedo a dividere le fave per lasciare quelle più tenere da mangiare con il pecorino. Modestamente anche quelle più grosse risultano poi tenerissime, ma tanto una divisione bisognava pur farla.
mentre aspettiamo che diventino n'greccie
Prendo a questo punto solo quelle da sgranare e qui mi viene incontro un antico detto che dice “ incomincia a lavorare il dito grosso “ e si perché è proprio con il dito grosso, il pollice che si libera le fave dal baccello.
Le due ricette prevedono la stessa fase iniziale, ovvero lo sbollentarle appena nell’acqua per mantenere il più possibile la tenerezza e il profumo.
La prima ricette si chiama appunto “ Fava n’greccia “ e rappresenta un mangiare antico della località di Macerata.
a Nicla Mazzara Morresi
N’grecce, in dialetto maceratese significa appunto arricciate. Proprio così ,quando si vede che la buccia diventa “ grinzosa “ allora, bisogna toglierle dal fuoco.
Appena scolate le fave vengono condite con olio ( io ho usato un olio abbastanza fruttato ), pepe, sale , aglio tagliato fino fino e menta ( del mio orto naturalmente ).
E una è fatta, passiamo alla seconda dal nome “Cuticusu”.
fave "n'greccie"
cioccolato con le fave di cacao
Anche questa è una ricetta maceratese e in dialetto “ cuticusu “ significa solletico ovvero molto stuzzicante ed è proprio così, confermo! 
fave " cuticusu "
Anche queste dopo averle lessate ( sempre n’grecce ) si scolano e si condiscono subito con un trito di aglio, maggiorana ( a risempre del mio orto ), acciughe spezzettate, olio ( io ho usato l’olio aromatizzato con la mia maggiorana ) e aceto ( bianco ).
Cari amici non vi dico un’assurdità ma quello che abbiamo mangiato il primo maggio avrebbe fatto risuscitare anche San Ciriaco. E’ proprio vero la semplicità è  una grande cosa.
particolare del Duomo di San Ciriaco
Ci sforziamo tante volte a creare elaborazioni su elaborazioni, quando invece basta piccoli gesti semplici, fatti con semplice cose per riassaporare il mondo di una volta.
San Ciriaco.


Grazie Nicla
E soprattutto grazie Augusto.